Associazione Astrofili Trentini
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Notiziario n. 17 - Estate 1999


La selenografia tra Sei e Settecento

di Marco Murara (Associazione Astrofili Trentini)


Al principio del Seicento, puntando il suo cannocchiale verso la Luna, Galileo Galilei scoprì che essa aveva una superficie percorsa da lunghe catene montuose, solcata da profonde vallate e segnata da numerosissimi crateri. Fin dall'antichità la Luna era stata considerata un corpo perfetto, eterno e incorruttibile: le osservazioni di Galileo cominciarono a far pensare che essa, in definitiva, non è altro che un mondo assai simile alla nostra Terra. Per gli astronomi si apriva così un nuovo filone di studio: la Luna era un territorio da esplorare, la sua superficie attendeva di essere mappata e le varie formazioni dovevano essere battezzate. Era nata la selenografia.

Figura 1: Galileo GalileiLe prime mappe della Luna sono opera dello stesso Galileo Galilei (1564-1642). Tra la fine del 1609 e l'inizio del 1610, egli realizzò parecchi disegni, di cui quattro furono pubblicati a corredo del Sidereus Nuncius (1610). Quello riprodotto qui a lato (figura 1) è il secondo della serie e fu tracciato sulla base di uno schizzo del 3 dicembre 1609. Sono facilmente riconoscibili alcune tra le principali formazioni della superficie lunare: in particolare, nella zona a cavallo tra la parte illuminata e quella in ombra, si notano le montagne a est del Mare Imbrium (in alto), i cui bordi luminosi si protendono anche nella porzione oscura. Il grande cratere in basso è probabilmente Albategnius, sebbene appaia di dimensioni un po' maggiori di quanto sia in realtà.

Alcuni decenni dopo le prime osservazioni di Galileo, l'astronomo tedesco Johannes Hevelius (1611-1687) diede alle stampe un'opera intitolata Selenographia, sive Lunae descriptio (1647), nella quale, oltre a pubblicare una grande mappa assai dettagliata, egli proponeva anche una serie di nomi da assegnare alla maggior parte delle formazioni lunari. La nomenclatura di Hevelius, però, non ebbe fortuna e fu soppiantata da quella indicata nella mappa di Riccioli, di pochi anni successiva.

Figura 2: Johannes HeveliusIn aggiunta alla mappa corredata di nomi, Hevelius realizzò altre due carte: la prima raffigurava la Luna piena così come appare al telescopio, ovvero priva di ombre; la seconda presentava la Luna piena ritoccata ad arte con ombreggiature, come se l'intera superficie fosse illuminata con luce radente. Il dettaglio raffigurato qui a destra (figura 2) corrisponde alla porzione di sud-est della mappa ombreggiata: in basso a sinistra spicca il cratere Tycho, circondato da un evidente sistema di raggi, mentre in basso a destra si notano i crateri Stevinus e Furnerius, somiglianti a due teste di coniglio. In alto a destra sono rappresentati in rapida successione i crateri Theophilus, Cyrillus e Catharina.

La carta di Hevelius, subito considerata un vero e proprio capolavoro, ebbe notevole influenza su varie realizzazioni cartografiche successive. Ad esempio, appena due anni dopo la sua pubblicazione, Eustachio Divini (1610-1685) disegnò una "Lunae facies" che in seguito sarà inclusa in due opere a stampa: il Mundus subterraneus (1665) di Athanasius Kircher e gli Experimenta nova (1672) di Otto von Guericke.

Figura 3: Eustachio DiviniConfrontando il quadrante di sud-est di Hevelius con quello di Divini (figura 3) appare evidente che la mappa del secondo si è ispirata in gran parte a quella del primo. Escludendo ovviamente il diverso stile di incisione, numerose sono infatti le somiglianze: il patente sistema di raggi intorno a Tycho; le due "teste di coniglio" Stevinus e Furnerius; il trio Theophilus, Cyrillus e Catharina. Tuttavia è vero anche che ci sono differenze in misura tale da poter affermare che Divini fece molte osservazioni in maniera autonoma.

A mezzo il Seicento fu data alle stampe la mappa che riveste un'importanza fondamentale nella storia della selenografia: si tratta della carta pubblicata da Giovanni Battista Riccioli (1598-1671) nel suo Almagestum novum (1651), della quale qui sotto è riprodotta la porzione occidentale, corrispondente alla parte meridionale dell'Oceanus Procellarum (figura 4). Questa carta è opera di due gesuiti italiani: Francesco Grimaldi, che realizzò la rappresentazione cartografica, e Giovanni Battista Riccioli, che inventò i nomi e scrisse il libro nel quale essa fu inserita.

Figura 4: Giovanni Battista RiccioliLa mappa di Grimaldi e Riccioli ebbe una notevole diffusione e fortuna: ancora alla fine del Settecento era riprodotta e commentata in parecchie opere di astronomia. A testimonianza del successo conseguito da questa carta, basti considerare che la nomenclatura in essa proposta viene utilizzata ancor oggi per identificare le varie zone e formazioni della superficie lunare.

In quanto gesuita, Riccioli era contrario alla teoria eliocentrica di Copernico, mentre sosteneva apertamente il modello cosmologico aristotelico-tolemaico, il quale prevedeva la centralità e l'immobilità della Terra. Per questo motivo, può apparire strano che alcuni tra i crateri più grandi e brillanti, appartenenti all'ottavo ottante (visibile in figura), siano stati battezzati con il nome di sostenitori del sistema copernicano: Copernicus, Keplerus, Galilaeus, Hevelius. È pur vero che crateri molto evidenti hanno ricevuto il nome di astronomi non copernicani, come ad esempio Ptolemaeus e Tycho, nel sesto ottante. Ma la cosa sorprendente è che due crateri dell'ottavo ottante, quello dei copernicani, hanno ricevuto i nomi di Ricciolus e Grimaldus (sono visibili nella parte in basso a sinistra della figura: a differenza degli altri crateri hanno il nome scritto in maiuscoletto). Ciò è tanto più singolare se si pensa che quasi tutti i crateri designati con il nome di altri astronomi gesuiti (per esempio Clavius, Kircher, Scheiner, Tannerus) si trovano nei pressi di Tycho, nel sesto ottante. Si tratta forse di una tacita adesione di Riccioli e Grimaldi alla teoria copernicana?

Figura 5: Gian Domenico CassiniNel 1679, Gian Domenico Cassini (1625-1712), direttore dell'Osservatorio di Parigi, pubblicò una grande mappa della Luna, il cui diametro era di oltre mezzo metro. Basata sui disegni di Sebastian Leclerc e Jean Patigny, questa carta era assai più precisa e dettagliata delle precedenti. Sfortunatamente, nessun esemplare di tale opera è giunto fino a noi. Tuttavia ne furono realizzate delle versioni in scala ridotta, le quali vennero allegate a numerosi trattati di ottica e di astronomia e, soprattutto in Francia, finirono per sostituire quelle di Hevelius e di Riccioli. Il particolare qui riprodotto, che rappresenta il Mare Imbrium (figura 5), è tratto dalla copia inserita nelle Institutions astronomiques (1746), versione francese di un popolare trattato di John Keill.

Figura 6: Robert HookeIl nome di Robert Hooke (1635-1703) è legato per lo più agli studi svolti con il microscopio. Nella sua opera intitolata Micrographia (1665), però, è contenuto il primissimo tentativo di rappresentare non tanto la superficie lunare nel suo complesso, quanto piuttosto un suo dettaglio. In particolare si tratta del cratere Hipparcus (figura 6), poco più a sud del centro della Luna: è evidente il notevole miglioramento rispetto ai circoli approssimati delle mappe di Hevelius e Riccioli. Poiché la zona interna del cratere gli appariva molto meno luminosa delle montagne circostanti, Hooke ipotizzò che essa potesse essere un luogo "fertile e coperto di vegetazione".

Figura 7: Francesco BianchiniUn'altra pregevole raffigurazione di dettagli della superficie lunare è opera di Francesco Bianchini (1662-1729), il quale la pubblicò in un libro dedicato principalmente allo studio di Venere, intitolato Hesperi et Phosphori nova phaenomena, sive Observationes circa planetam Veneris (1728). Il disegno (figura 7) rappresenta la catena montuosa delle Alpi, circondata dai crateri Plato, a destra, Aristoteles ed Eudoxus, a sinistra, e da un cratere privo di nome, in alto. In seguito, quest'ultimo cratere sarà intitolato a Gian Domenico Cassini.

Figura 8: Tobias MayerVerso la metà del Settecento, l'astronomo tedesco Tobias Mayer (1723-1762) utilizzò per primo un micrometro all'interno del telescopio al fine di determinare l'esatta posizione delle varie formazioni sulla superficie lunare. A partire dal 1748, egli realizzò una quarantina di disegni assai dettagliati, sulla base dei quali pensava sia di comporre una mappa generale, sia di costruire un vero e proprio globo tridimensionale. Nel libro intitolato Bericht von den Mondskugeln (1750), Mayer presentava il suo progetto di "mappamondo lunare" – che però non fu mai realizzato – unitamente ad alcuni esempi delle stampe che potevano essere realizzate grazie ai suoi disegni. La tavola qui riprodotta (figura 8), che rappresenta la zona intorno ai crateri Clavius, il più grande, e Longomontanus, al centro dell'immagine, è interessante per due ragioni. Anzitutto, è il primo caso nella storia della selenografia in cui viene utilizzata la tecnica tipografica della mezzatinta. In secondo luogo, per errore dell'incisore, la stampa risulta rovesciata. La didascalia apposta alla tavola recita così: "Se volete vedere la stampa correttamente, tenetela davanti ad uno specchio".


Marco Murara, nato ventitré anni fa, ha conseguito la maturità classica nel 1995, intraprendendo poi gli studi giuridici. Suo interesse particolare è la storia dell'astronomia, cui si dedica attivamente da alcuni anni.


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